Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà. La celebre frase di Gramsci mi sembra quanto mai pertinente a questo difficile momento in cui si sta avviando un po’ ovunque la fase di riapertura dopo il lockdown, in assenza di ogni certezza scientifica e, a livello mondiale, di figure che sappiano infondere capacità di sacrificio e fiducia. Penso con nostalgia a Churchill e al suo straordinario discorso all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, il 3 maggio 1940. “Non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Abbiamo davanti a noi molti, molti lunghi mesi di lotta e di sofferenza. Voi domandate, qual è il nostro obiettivo? Posso rispondere con una sola parola: la vittoria. La vittoria a tutti i costi. La vittoria nonostante tutto il terrore. La vittoria, per quanto lunga e difficile la strada possa essere, perché senza la vittoria non c’è sopravvivenza”. Che differenza con i politici di oggi che, ovunque, cercano di rassicurare senza avere nessuna strategia, e proprio per questo accrescono l’incertezza e lo sconforto. Che non sanno chiedere sacrifici, ma cercano di tenere la gente tranquilla con promesse che non potranno realizzare. E invece di stilare progetti coraggiosi consultano i sondaggi d’opinione.
Per la pandemia da Covid 19 i paragoni bellici sono stati abusati. Ma la verità è che ci troviamo davanti a un nemico insidioso che ci spiazza perché non riusciamo a definirne con precisione l’identità e a prevederne i comportamenti, un alieno che sfugge alla nostra esperienza e ai nostri schemi. È ovvio quindi che la nostra ragione dipinga scenari da incubo. Ma qui deve subentrare l’ottimismo della volontà. Che non è un ottimismo stupido, l’andrà tutto bene, l’attesa della bacchetta magica. È un ottimismo che si deve basare sulla fiducia nella scienza, nell’assunzione di responsabilità individuale e nel rafforzamento delle strutture sanitarie sul territorio per la prevenzione, l’assistenza domiciliare e i ricoveri in ambienti non patogeni, quali purtroppo sono diventati molti ospedali oggi.
È vero, sul coronavirus sappiamo ancora poco. Non abbiamo diagnosi certe, né cure internazionalmente avallate. Il vaccino, nel migliore dei casi, è lontano parecchi mesi. La malattia stessa ci sfugge: è solo respiratoria/polmonare? Cardiovascolare? Immunitaria? Sistemica? Crea immunizzazione o, come per l’influenza, si possono avere ricadute anche a breve distanza di tempo? E i bambini, che generalmente sono asintomatici, sono comunque portatori del virus e devono essere tenuti isolati, oppure, come sostengono alcuni, non rappresentano alcun pericolo? Il virus stesso, poi, è stato trasmesso attraverso gli animali, o è stato ingegnerizzato, come ogni tanto si sente dire, peraltro senza prove? Si attenuerà, muterà, si ripresenterà? Tutte domande senza risposta. Ma se non vogliamo cadere in una pandemia ancora più grave, quella socioeconomica, e rischiare una colossale depressione, come quella del 1929, dobbiamo aver il coraggio di ricominciare, a piccoli passi, mettendo un piede avanti solo quando l’altro è al sicuro. È questo che vorremmo sentire dire dai nostri politici, e ci sta anche l’incertezza delle misure da prendere, perché nessuno ha la sfera di cristallo, le opinioni sono contrastanti e bisogna navigare a vista in una tempesta che non sappiamo quanto durerà e come si svilupperà. E qui diventa fondamentale il rapporto tra politici e scienziati, che si era incrinato negli ultimi anni sotto il fuoco di un insano populismo mediatico che metteva sullo stesso piano premi Nobel e influencer senz’arte né parte.
Ma guardiamo alla metà piena del bicchiere. Mentre in passato ci volevano anni, se non decenni, per isolare un virus, questo lo abbiamo sequenziato in due settimane. Attraverso il lockdown siamo riusciti a contenerlo, dopo il picco delle prime settimane. Ci sono almeno tre protocolli terapeutici diversi che sembrano dare risultati positivi e vengono oggi testati in tutto il mondo. E sette laboratori paiono in dirittura d’arrivo nella messa a punto di un vaccino, anche se i tempi tecnici per la sperimentazione umana sono necessariamente lunghi, perché non si può rischiare di iniettare sulla popolazione sana un vaccino senza essere sicuri che sia innocuo. Si sta sperimentando in vari Pesi, tra cui la Svizzera, la plasmaferesi, ovvero il trasferimento ai malati gravi del plasma di persone guarite e con un alto livello di immunoglobuline IGG. E si stanno approntando in tutto il mondo esami rapidi ed economici, di facile produzione, per individuare le persone infette, da un lato, e quelle immuni, dall’altro. Una epidemia come il Covid 19 in passato avrebbe fatto milioni di morti. Grazie alle conquiste scientifiche e tecnologiche, alle dolorose misure prese, e al senso di responsabilità della maggior parte dei cittadini in tutto il mondo, contagio e morti sono stati contenuti.
Ora si tratta di capire non solo come riprendere, ma anche a quale modello di sviluppo aspiriamo. In primis, sanitario. Questa pandemia da coronavirus non è la prima e soprattutto non sarà l’ultima.
Gli scienziati da anni, se non decenni, avevano avvertito dell’approssimarsi di una pandemia virale e della necessità di rafforzare le strutture sanitarie territoriali. “Nel 2017 uno dei maggiori virologi, l’americano Ralph S. Baric, alla domanda circa il pericolo di una pandemia catastrofica, ammonì che la prima barriera preventiva sono le infrastrutture di sanità pubblica: maggiore igiene, strutture mediche più efficienti e un sistema di assistenza in grado di attivarsi velocemente” ha dichiarato in una intervista a Il Domani d’Italia Arnaldo Benini, una delle più illustri personalità scientifiche in Svizzera. “Parole al vento. Si sono ridotti, anche drasticamente, in Italia e altrove i fondi per la ricerca e la sanità pubblica. Gli ospedali e l’assistenza medica nel paese più ricco e potente del mondo sono – dice il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo – disastrosi. Gli Stati Uniti sono ora il fulcro della pandemia”.
Dunque, una delle prime priorità deve essere quella di investire sul sistema sanitario, sui medici e i paramedici che abbiamo incensato come eroi ma presto saranno dimenticati, mettendo a punto un progetto di ampio respiro che tenga conto anche degli sviluppi della telemedicina.
Il secondo punto è quello della responsabilizzazione individuale. La guerra al Covid la si vince solo se ognuno è pronto a sacrifici, in primis quello della libertà di movimento. Pensare a un controllo sociale attraverso le telecamere a riconoscimento facciale, le app di tracciamento, la polizia e i servizi segreti, significa mettere le basi di una società che abdica al proprio ruolo morale e una regressione collettiva allo stato infantile. Certo, il tracciamento digitale sicuramente può essere utile, ma pone moltissimi problemi etici e pratici. Serve solo se è utilizzato dalla maggioranza della popolazione, se è implementato dalla capacità di fare esami, tamponi e dare assistenza a tutti i contatti di ogni infettato, e se c’è chi poi dà seguito alle informazioni ricevute dalla App. C’è poi il problema di quale tecnologia sia meglio utilizzare (gps o bluetooth), di come garantire l’anonimato, e di chi detiene i dati. Siamo il Paese in cui ogni giorno informazioni riservate e registrazioni coperte da segreto istruttorio arrivano sulle prime pagine dei giornali. È vero, i nostri dati già li maneggiano, senza il nostro consenso e senza che ne siamo consapevoli, i grandi colossi del digitale. Ma non sono, almeno per ora, il potere politico. C’è chi suggerisce che le informazioni possano rimanere nella memoria dei singoli smartphone ed essere scaricati solo in caso di necessità e in modo anonimo. Personalmente mi sembrerebbe più ragionevole, ma rimane la questione di fondo: l’occhio che controlla dall’alto, non finisce per deresponsabilizzare i cittadini e per acuire il piacere della trasgressione? Invece che nebulose normative e la creazione di una società di automi controllati dal Grande Fratello, non sarebbe più utile dare chiare indicazioni sui comportamenti da adottare per sconfiggere il virus, dando fiducia ai cittadini e alla loro capacità di controllo sociale, come avviene in Svizzera e nei Paesi del Nord, ma anche nella mediterraneissima Grecia? Perché i nostri politici ci trattano come bambini dell’asilo invece che stimolare il nostro orgoglio di adulti responsabili? Gli italiani sono un popolo di individualisti e opportunisti è vero, ma che hanno saputo ricostruire il Paese dopo la guerra con grandi sacrifici e ottenere una eccellenza riconosciuta nel mondo. Non sarebbe giusto che qualcuno ce lo ricordasse? O forse mantenerci allo stadio infantile è strumentale per creare una società di individui manipolabili, premessa di ogni regime autoritario.
E infine una considerazione di carattere generale. In questo momento, come ha scritto anche lo storico Yuval Harari, diventato il guru della coscienza mondiale, dobbiamo prendere decisioni fondamentali per il nostro futuro, o meglio, per il futuro del pianeta. Il virus, come ha scritto sul nostro sito lo scienziato Massimiliano Sassoli de Bianchi, ha avuto il ruolo di hacker scardinando il sistema per dimostrarne la debolezza. L’inquinamento, che indebolisce il sistema respiratorio e la deforestazione, che priva gli animali selvatici del loro habitat, sono due fattori fondamentali nella diffusione del virus. Ma non solo: abbiamo sconvolto ecosistemi remoti e antichi di millenni, abbiamo consumato le riserve del pianeta, distrutto aria e mari con rifiuti e inquinamento, eroso i ghiacciai, snaturato le culture tradizionali con il turismo di massa. “L’alterazione violenta degli ambienti – cito nuovamente il professor Benini – è una delle cause delle mutazioni degli agenti patogeni e quindi delle epidemie e pandemie. L’aumento enorme della popolazione, ammassata in città di dimensioni che facilitano contagi e inquinamento, l’aumento della temperatura, la polluzione che altera e indebolisce i polmoni: tutto ciò e altro ancora hanno portato da anni virologi, epidemiologi, biologi a prevedere un big crash micidiale”.
Il Covid 19 ha azzerato tutto per due mesi. L’aria è tornata pulita. Le città d’arte hanno ripreso il loro incanto. Nei mari pullulano i pesci e l’acqua, persino a Napoli, è limpida e turchese. Oggi abbiamo la possibilità di decidere che tipo di ripartenza vogliamo. Ricreare il mondo di prima, sull’orlo del suicidio? Vogliamo tornare a una società basata sulla ingordigia di pochi e la povertà di miliardi di persone? Vogliamo continuare a ragionare in termini di profitto invece che di qualità della vita? Purtroppo, sembra che queste domande se le pongano solo pochi inguaribili sognatori, e nei molteplici comitati preposti a disegnare il prossimo futuro, nessuno ne fa cenno. Comitati dai quali peraltro sono state praticamente escluse le donne e anche i giovani. Ma senza di loro, senza varietà di pensiero e di approccio, senza l’esperienza della rete e della solidarietà, che è tipica della cultura femminile e dei nati digitali, il rischio è che invece di morire di Covid l’umanità si estinguerà per la siccità, l’inquinamento, lo spopolamento dei mari, la deforestazione. Non la generazione di quelli che ora tengono le redini. Loro si salveranno. Perché ancora per qualche decennio il mondo andrà avanti – a meno che qualche pazzo non scateni la terza guerra mondiale. Quelli che ne soffriranno le conseguenze saranno i nostri figli e nipoti, dei quali nessuno sembra preoccuparsi.