Si comincia, forse, a intravedere la luce in fondo al tunnel. Mentre i Governi in tutto il mondo preparano le norme per un progressivo rientro alla vita attiva e alla normalità, o almeno a una forma di normalità vigilata, prende corpo la speranza di arrivare, in tempi relativamente brevi, a terapie efficaci e forse anche a un vaccino. In molti ospedali si stanno sperimentando con risultati promettenti farmaci diversi, perché diversi sono gli approcci alla comprensione dell’eziologia del virus. E sono più di cento i laboratori in tutto il mondo nei quali si sta alacremente lavorando a un vaccino, anche se si contano sulle dita di una mano quelli che hanno qualche seria speranza di successo, almeno nel prossimo futuro.
In Israele sembra essere in dirittura d’arrivo la sperimentazione su un vaccino messo a punto dal Migal Galilee Research Institute: nasce dall’esperienza con il coronavirus aviario, sul quale l’azienda sta lavorando da quattro anni. In America, presso il Medical Center dell’Università di Pittsburgh un team di ricercatori guidati dall’italiano Andrea Gambotto sta lavorando a un vaccino veicolato non via iniezione, ma grazie a un cerotto: nasce dalla ricerca del 2003 per vaccino contro la SARS, che venne abbandonato perché il virus scomparve da solo.
Ma ancora più vicina al traguardo sembra essere la ricerca italiana. Coordinate da Pietro Di Lorenzo, presidente e amministratore delegato del gruppo IRBM di Pomezia, due donne stanno lavorando contro il tempo. Sarah Gilbert, che dirige lo Jenner Institute, uno dei più prestigiosi centri di vaccinologia al mondo presso l’Università di Oxford e Stefania Di Marco, a capo della Advent Team del Gruppo IRBM, sono in procinto di avviare in Inghilterra la fase 3 di sperimentazione del nuovo vaccino AntiCovid19 su un gruppo di 550 volontari, dopo aver ottenuto l’autorizzazione dell’Agenzia Inglese per il Farmaco.
Entro giugno l’inoculazione sui volontari dovrebbe essere terminata, e per l’autunno si dovrebbero conoscere i risultati. Se confermeranno le aspettative, il vaccino potrebbe essere disponibile all’inizio del 2021.
Come è riuscita la joint venture Jenner/IRBM a tagliare i tempi?
“Da 18 anni lo Jenner Institute studia la famiglia dei coronavirus” spiega Di Lorenzo. “E in questo momento sta testando, in fase 2 di sperimentazione in Arabia Saudita, un vaccino per un coronavirus molto simile al SARS-CoV-2, quello della MERS. Questo ha consentito a Sarah Gilbert e al suo gruppo di sintetizzare in un paio di settimane il gene della proteina spike del Covid 19 (ovvero non il virus stesso, ma una porzione sintetica e innocua del suo genoma), non appena i cinesi nei primi giorni di gennaio hanno isolato e sequenziato il virus. Ma come iniettarlo nell’organismo umano in modo innocuo in modo da pre-attivare il sistema immunitario che non riconosce il Covid 19, non avendolo mai incontrato prima? Noi dell’IRMB disponiamo di un formidabile cavallo di Troia. È l’adenovirus, il virus dei banali raffreddori, depotenziato affinché non possa replicarsi nell’organismo. Questa piattaforma che abbiamo realizzato sette anni fa grazie al genio di Riccardo Cortese, biologo molecolare di fama internazionale e nostro partner, ci ha consentito di realizzare il vaccino anti Ebola. Caricato al suo interno con la proteina spike sintetizzata e depotenziata, l’adenovirus consente di far entrare il gene della proteina spike nell’organismo umano e attivare il sistema immunitario, in modo che qualora in futuro si dovesse contrarre la malattia, ci sarebbero pronti gli anticorpi per contrastarla”.
Una storia di sapore omerico, che ha consentito di tagliare drasticamente i tempi: poiché sia la piattaforma dell’adenovirus che il gene della proteina di coronavirus sono già stati approvati, rispettivamente nel vaccino contro l’Ebola e in quello contro la MERS, ai ricercatori è stato consentito di saltare le fasi 1 e 2 della sperimentazione umana e partire direttamente con la fase 3.
Questo in Inghilterra… e in Italia?
“Abbiamo già contattato il Ministro della Salute, l’Istituto Superiore di Sanità, l’Aifa, il Ministro per la Ricerca e gli organismi competenti per ottenere una fast track anche da noi: mi sono sembrati interessati e collaborativi” spiega Di Lorenzo.
Intanto l’azienda si sta attrezzando per decuplicare la capacità produttiva e cercare partner istituzionali. Certo, è una scommessa coraggiosa. Le incognite sono molte, basti pensare al buco nell’acqua del vaccino contro la SARS. Non potrebbe succedere che il SARS-CoV-2 scompaia da solo come il suo predecessore, vanificando il vostro lavoro e il vostro investimento?
“Realizzare un vaccino efficace è importante non solo per questa emergenza, ma anche per quelle future. Non illudiamoci, anche se questa pandemia dovesse recedere spontaneamente, con i coronavirus la storia non è finita qui: mutano e diventano più aggressivi. Ma se troviamo il modo di veicolare un vaccino efficace, in 15 giorni sarà possibile attualizzarlo: così come abbiamo fatto utilizzando per il coronavirus l‘esperienza con la MERS e con l’Ebola. E come avviene ogni anno con il vaccino dell’influenza”.
Non teme la concorrenza? Realizzare un vaccino ha costi altissimi: e il rischio di essere battuti sul tempo è un problema reale…
“È utile che ci sia più di un vaccino. In una situazione di pandemia, sarebbe un beneficio disporre di vaccini con modalità diverse di azione e somministrazione” è la salomonica risposta di De Lorenzo.
De Lorenzo è uno che di scommesse e di rischi calcolati se ne intende, come testimonia la storia della sua azienda, un piccolo miracolo italiano. I laboratori della IRBM facevano parte della rete produttiva della Merck in Italia, ma nel 2009, dopo la fusione con la Schering Plough, la multinazionale farmaceutica americana decise di chiudere le attività italiane, scorporando solo la struttura di Pomezia, per motivi di immagine e perché in quei laboratori l’anno precedente era stato scoperto l’Isentress, il farmaco più innovativo per l’AIDS. Di Lorenzo, che allora era un consulente della Merck, fu incaricato di cercare una cordata di industriali italiani interessati a rilevare il Centro, ma senza successo. Decise allora di impegnarsi in prima persona per tenere in vita quel fiore all’occhiello della ricerca farmaceutica italiana, concordando con i 180 ricercatori e i sindacati un drastico progetto di ridimensionamento, in vista però di un graduale ritorno alla produttività piena. Una scommessa che ha avuto successo: dai 25 ricercatori assunti subito nel 2009, la IRBM in dieci anni è tornata a impiegarne, tra interni e consulenti, 250, di cui i due terzi sono donne; collabora con centri di ricerca e Università in tutto il mondo, ed è un modello di gestione in un settore difficile come quello farmaceutico. Oggi è specializzata in progetti di ricerca integrati nel campo chimico farmaceutico per l’identificazione di nuovi agenti terapeutici sia di origine chimica che biologica e nella implementazione di una libreria europea di composti chimici, molecole che non hanno trovato un preciso utilizzo, ma vengono catalogate e rese disponibili per la ricerca nazionale. Uno straordinario e prezioso archivio per costruire il quale Di Lorenzo è impegnato da anni, perché proprio dalle molecole “orfane” possono scaturire importanti risultati terapeutici. E vanno quindi salvate.