L’articolo che segue è stato scritto da Filippo di Robilant, allora membro del Comitato Direttivo dello IAI, e pubblicato su AffarInternazionali, sull’onda della grave epidemia di Ebola scoppiata in diversi paesi dell’Africa occidentale nel 2014. L’autore oggi ci precisa che i concetti espressi circolavano da almeno vent’anni in alcuni settori della comunità scientifica mondiale, che si domandavano come evitare di ripetere gli errori commessi con la pandemia dell’Aids, di cui si continua a morire ancora oggi. L’auspicio era che l’Aids ci aveva reso più vigili rispetto ai virus emergenti. Non era così.
Da allora sono stati fatti piccoli passi avanti ma del tutto insufficienti se si guarda all’effetto devastante che le pandemie hanno sull’umanità. Come ci dicono gli esperti, di fronte all’insorgere di nuovi virus occorre ogni volta trovare l’arma adatta per sconfiggerli quindi l’unica “prevenzione” possibile è rappresentata da un binomio: preparazione e cooperazione. Preparazione significa che le popolazioni devono essere addestrate su come attenersi a codici di comportamento basati sul principio di precauzione; preparazione significa avere servizi sanitari e sociali solidi e sostenibili; preparazione significa incoraggiare per i futuri medici la specializzazione in virologia ed epidemiologia: sono loro i “detective” che scoprono i virus facendoceli conoscere. Cooperazione significa non solo che la ricerca scientifica deve lavorare su piattaforme condivise ma significa soprattutto creare uno strumento transnazionale permanente con poteri vincolanti e una chiara catena di comando in grado di garantire l’attuazione di regole comuni in caso d’insorgenza di qualsiasi epidemia. Con la diffusione del coronavirus si è parlato tanto di consenso nei processi democratici e di reticenza da parte dei governi nell’introdurre misure restrittive impopolari. Per questo è fondamentale evitare risposte ad hoc e avere invece meccanismi ex ante stabiliti in comune.
Per avere contromisure attuate con rapidità, prima che i virus facciano il salto di qualità e diventino fenomeni globali, bisogna affrontare la realtà della riduzione del rischio e restringere il divario tra pandemie e livello e intensità della nostra risposta. Questo valeva più di due decenni fa e vale ancora oggi, mentre subiamo il flagello del Covid-19.
Ebola, una tragedia annunciata, 13 ottobre 2014
L’esperienza ultradecennale della pandemia dell’Aids ci avrebbe dovuto rendere più vigili rispetto ai virus emergenti. Non è stato così. Ancora oggi, governi e istituzioni sanitarie mondiali preferiscono aspettare di essere travolti dalla valanga di pandemie prima di prendere provvedimenti seri.
Finché si continuerà a considerare le emergenze pandemiche solo come problema sanitario, e non come questione da affrontare anche dal punto di vista politico-istituzionale e dello sviluppo umano, la nostra risposta rimarrà inadeguata.
Dall’Aids a Ebola
Sono passati più di vent’anni da quando autorevoli membri della comunità scientifica internazionale esortavano i decisori politici a guardare al di là del fenomeno dell’Aids. Ammonivano che da troppo tempo troppe persone violavano troppi ecosistemi.
Avvertivano, per esempio, degli effetti allarmanti della graduale distruzione della biosfera tropicale: la foresta pluviale, essendo il serbatoio del pianeta più capiente di specie vegetale e animale, lo è anche di varietà di virus.
E quando un ecosistema viene degradato, virus sconosciuti sono sfrattati dai loro ambienti naturali e sottoposti a una pressione selettiva estrema: alcuni reagiscono scomparendo, altri mutando rapidamente e cambiando habitat. Gli scienziati si domandavano se il virus dell’Hiv fosse solo un caso emblematico e non il culmine di un disastro che invece avrebbe potuto prendere il nome di altri virus letali come Ebola, Dengue, Marburg, Junin, Lassa, Machupo, Guanarito, O’nyong’nyong.
Virus che ignorano le frontiere
Non c’è dubbio che i programmi nazionali contro l’Aids degli inizi degli anni ’90 erano troppo rigidamente concepiti come programmi governativi anziché come frutto degli sforzi congiunti degli organi esecutivi, dei centri di ricerca, delle associazioni e del settore privato.
La sfida posta alla comunità internazionale richiedeva invece una cooperazione coordinata, sostenibile, transnazionale e complementare. Altrimenti detto, il fatto che il virus ignorasse le frontiere rendeva essenziale stabilire una politica comune tra gli stati.
Invece, la visione “globale” della pandemia, paradossalmente, anziché allargarsi, si è ristretta: i paesi donatori hanno dimostrato una crescente predilezione a lavorare indipendentemente e su base bilaterale con i paesi del Terzo mondo, con il risultato che Unaids, l’agenzia Onu che dal 1996 concentra su di sé le attività anti-Aids, non ha sviluppato la necessaria credibilità per assegnare ruoli e creare meccanismi di coordinamento.
L’esperienza accumulata in questi anni dall’agenzia dovrebbe tuttavia essere messa al servizio dell’emergenza Ebola; anzi, c’è da chiedersi se l’urgenza non imponga di estendere il suo mandato a tutti i virus letali. Questa nuova emergenza è infatti un’occasione per creare uno strumento transnazionale permanente, con poteri vincolanti, in grado di garantire l’attuazione di regole comuni in caso d’insorgenza di qualsiasi pandemia.
Con la deflagrazione della bomba Ebola – che il Presidente statunitense Barack Obama ha definito una minaccia alla sicurezza globale – interesse collettivo è quindi evitare gli errori compiuti nel passato all’interno del dispositivo predisposto dall’Onu: disarmonia tra politiche accettate a livello globale e azione a livello nazionale, indicazioni tecniche contraddittorie, diverse interpretazioni dei mandati e delle aree di competenza delle varie organizzazioni, insufficiente coordinamento degli input dati ai singoli paesi, risposte lente all’evoluzione della pandemia.
In Europa, per esempio, non esiste l’equivalente del Centers for Disease Control and Prevention statunitense (Cdc): il European Center for Disease Prevention and Control (Ecdc), creato sull’onda dell’epidemia Sars nel 2004 e di base in Svezia, svolge un ruolo di coordinamento degli esperti sanitari nazionali, ma non ha una sua unità che risponde alle urgenze.
UN Mission for Ebola Emergency Response
L’istituzione, il 19 settembre scorso, della UN Mission for Ebola Emergency Response (Unmeer), ad Accra, e la nomina di un Inviato speciale delle Nazioni Unite per la lotta al virus, vanno quindi nella buona direzione. Per la prima volta nella sua storia l’Onu crea una Missione per un’emergenza di salute pubblica. Vedremo se seguirà anche un flusso di fondi tale da garantire continuità al suo operato.
Anche la Emergency Response Unit dell’Unione europea, che abitualmente monitora conflitti armati e disastri naturali, ora segue l’andamento dell’epidemia 24 ore su 24. Tutto questo rischia però di non essere sufficiente se gli sforzi non saranno moltiplicati.
Ieri come oggi dobbiamo prendere atto che: a) le risposte alle emergenze vengono effettuate sostanzialmente su basi ad hoc; b) non esiste una procedura ufficiale per determinare quali organizzazioni a livello internazionale devono assumere la responsabilità amministrativa, tecnica e finanziaria, per non parlare di responsabilità politica, e con quale catena di comando; c) manca una valida rete di comunicazione per garantire una risposta operativa efficace e tempestiva da parte di autorità nazionali.
E poi: esistono strategie per scoprire e prevenire epidemie dovute a nuovi virus o alla riapparizione di vecchi? Siamo in grado di inventare efficaci contromisure per circoscrivere epidemie prima che facciano il “salto di qualità” e diventino fenomeno globale? Un quadro giuridico-istituzionale da attuare su scala globale può essere previsto per i virus, che per definizione non conoscono né limiti di tempo né di spazio?
In questi venti anni si è dormito il sonno dei giusti. Si è lavorato più alla “conservazione delle catastrofi” che alla loro prevenzione. Occorre invece lavorare alla riduzione del rischio, introducendo regole comuni anche per aggirare gli effetti frenanti delle tradizioni religiose e culturali che portano i virus a essere accettati come tragica fatalità.
Infine, un appello alle case farmaceutiche: evitiamo milioni di morti come è stato per l’Aids, solo perché chi poteva non aveva interesse e chi non poteva non aveva scelta.