CONTROVIRUS | Clorochina, una molecola antica

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Antonio Malgaroli, psichiatra e Professore Ordinario di Fisiologia Università Vita-Salute San Raffaele

Con la diffusione del Coronavirus (COVID19) sta crescendo il nostro livello di ansia. Abbiamo ovviamente paura di contrarre l’infezione, vorremmo riconoscerne i sintomi, sapere quali medicine prendere e non prendere. Molte terapie sono in fase di sperimentazione clinica, compresi i vaccini, alcune purtroppo sono già state messe in discussione (per esempio l’associazione Lopinavir–Ritonavir; Ref. 1). Il presidente americano Donald Trump ha parlato recentemente della clorochina, un farmaco utilizzato da quasi un secolo nella terapia della malaria e di alcune malattie autoimmuni quali l’artrite reumatoide. Trump ne ha parlato in termini entusiastici, a suo avviso questo farmaco sconfiggerà l’epidemia, parole che hanno destato grande interesse ma anche molto scetticismo. Anthony Fauci, il direttore del National Institute of Allergy and Infectious diseases, consigliere di Trump, lo ha subito smentito dicendo “le informazioni sulla clorochina sono ancora aneddotiche, sono necessari dei trial clinici controllati per fornire delle risposte chiare”. Ma a ben guardare, la clorochina è già presente in molti protocolli clinici oggi utilizzati, forse vale la pena capirne qualcosa di più.

La clorochina deriva dal chinino, una molecola che si estrae dalla corteccia della Chincona, un albero molto abbondante sulle Ande tropicali (Ref. 2). In Sudamerica gli estratti della corteccia di Chincona vengono usati da sempre come antimalarici, antinfiammatori e febbrifughi (Figura 1). Nel 1600 la corteccia fu importata dai Conquistadores Spagnoli e da li si il suo utilizzo si diffuse in tutta Europa.

Figura 1: La corteccia della Chincona, molto ricca di alcaloidi tra cui il chinino.

Come sappiamo, l’acqua tonica e tanti liquori vengono addizionati con il chinino. Nel diciannovesimo secolo, la Compagnia Britannica delle Indie Orientali, a conoscenza delle proprietà antimalariche del chinino, ben sapendo che l’acqua con il chinino non è molto palatabile, perché troppo amara, ci aggiunse dello zucchero, del limone e un goccio di gin, inventando il celebre cocktail Gin Tonic. Il chinino ha però la cattiva abitudine di accumularsi nell’organismo diventando pericoloso. Se lo si prende regolarmente per prevenire la malaria, non sono infrequenti il vomito, la diarrea, gli acufeni uditivi, i disturbi visivi, e ancora peggio, nei soggetti predisposti, delle gravi aritmie cardiache. La tossicità del chinino portò così allo sviluppo e allo studio di derivati chimici tra cui clorochina (Figura 2), messa a punto all’inizio del 900, presso la ditta farmaceutica tedesca Bayer AG, da un ricercatore di origini italiane, Johann Andersag. Da questa molecola venne poi sviluppata una variante con un migliore indice terapeutico, l’idrossiclorochina, oggi regolarmente usata nel trattamento cronico dell’artrite reumatoide e del lupus sistemico eritematoso (Ref. 3-4). Ma come funziona questa molecola e perché dovrebbe prevenire l’infezione malarica?

Figura 2: La struttura chimica del chinino e del suo derivato clorochina.

Tutte le cellule eucariote possiedono al loro interno un compartimento composto da piccole vescicole di trasporto denominati endosomi. Queste vescicole, sempre in continuo movimento, garantiscono gli scambi tra interno ed esterno della cellula. Una cellula comunica, mangia, cresce di dimensione, si libera dei rifiuti interni grazie al lavoro di questi organelli. Questi endosomi hanno un pH acidico al loro interno. La clorochina, un composto basico, ne attraversa liberamente la membrana, ma appena l’ha superata, per colpa del pH acido, si carica positivamente rimanendo intrappolata al suo interno, da lì poi confluisce nei lisosomi, gli organelli digestivi della cellula. Più tempo passa e più clorochina si accumulerà, modificando l’attività degli endosomi e le capacità digestive della cellula. Il Plasmodium Falciparum, il parassita della malaria, quando viene esposto alla clorochina l’accumula nei suoi endosomi e così perde la capacità di assimilare e digerire l’emoglobina, di cui si nutre e che mangia in grande abbondanza.

Questa molecola mi riporta indietro nel tempo alla metà degli anni ’80. Mi ero appena laureato in Medicina e Chirurgia, mi stavo specializzando in Psichiatria, e svolgevo un’attività di ricerca nel laboratorio del neurofarmacologo Jacopo Meldolesi. In quegli anni avevo avuto la fortuna di conoscere lo scienziato americano di origini cinesi Roger Y. Tsien, con il cui fratello Richard W. Tsien andai poi a lavorare qualche anno più tardi presso l’Università di Stanford. A quei tempi, misurare la risposta cellulare a un qualsivoglia composto era molto arduo, se non impossibile. Roger aveva appena inventato delle molecole innovative in grado di produrre dei segnali luminosi quando le cellule venivano attivate, aprendo la strada a uno studio sistematico dei meccanismi di controllo della segnalazione intracellulare. Questo lavoro, portato avanti con lo sviluppo di sensori proteici ancora più selettivi, gli valse il premio Nobel per la Chimica nel 2008. I composti sviluppati da lui negli anni ’80, per qualche motivo non funzionavano bene, io scoprii che questo dipendeva dal loro intrappolamento negli endosomi. Per capirlo e trovare una soluzione al problema, utilizzai vari trucchi farmacologici e tra questi la clorochina. Come si vede dalla Figura 3, mentre in situazioni normali i coloranti di Roger Tsien si accumulano all’interno di piccoli organelli intracellulari che danno un aspetto puntinato alle cellule, quando le cellule vengono trattate con clorochina questo non succede e la cellula acquista una colorazione omogenea (Ref. 5). Alterare il pH degli endosomi impedisce quindi alle cellule di accumulare al loro interno queste molecole.

Figura 3: La clorochina blocca l’accumulo di molecole fluorescenti negli endosomi. Gli endosomi appaiono come dei puntini colorati all’interno delle cellule in condizioni controllo (pannelli H-I) ma non sono più visibili se le cellule sono state pretrattate con clorochina (pannello J). Tratto da Malgaroli et al., 1987 (Ref.5).

Ma cosa c’entra tutto questo con il COVID-19? Perché mai la clorochina dovrebbe funzionare come farmaco antivirale? Il COVID-19 è un organismo ultra semplificato, composto dal materiale genetico (RNA) ricoperto da un semplice involucro proteico, a forma di corona, da cui il nome. Il virus non possiede certo degli endosomi al suo interno. Le evidenze sperimentali indicano però che i virus di questa famiglia, per infettare le cellule, debbano tutti essere prima mangiati o endocitati. Le cellule in questione sono le cellule superficiali della nasofaringe, della congiuntiva oculare e poi da lì a cascata tutte quelle che ricoprono i bronchi e formano gli alveoli polmonari. Una volta entrati negli endosomi di queste cellule, a seguito di alcune reazioni enzimatiche, perdono l’involucro proteico, liberando il materiale genetico che permetterà al virus di moltiplicarsi in modo copioso (Ref. 6). Quindi l’endosoma è una sorta di cavallo di Troia che porta all’interno il nemico: interferire con la sua attività porta inevitabilmente a ridurre il numero di particelle virali prodotte durante l’infezione. Questa ipotesi è supportata da chiare evidenze sperimentali ottenute in vitro, che dimostrano come la clorochina abbatta il numero di particelle virali prodotte dopo l’infezione virale con COVID-19 e con altri virus della stessa famiglia (Figura 4; Ref. 7-10).

Figura 4: Effetti della clorochina sull’infezione da COVID-19 in una popolazione di cellule in coltura. Nei 4 pannelli alla estrema destra, le cellule sono colorate in verde quando sono presenti al loro interno delle particelle virali COVID-19. Notare come con il trattamento con clorochina si riduca il numero di cellule verdi rispetto al controllo (DMSO; ultimo pannello in basso a destra). Il grafico sulla sinistra mostra le percentuale di inibizione della crescita virale (pallini rossi) e della tossicità (quadrati bleu) in funzione della concentrazione di clorochina. Alle dosi qui usate, l’effetto terapeutico si ottiene per dosi non tossiche per le cellule. Tratto da Wang M. et al., 2020 (Ref. 7).

Da queste considerazioni, sembra ragionevole pensare che la clorochina possa funzionare anche in vivo. Purtroppo, non sempre i risultati ottenuti in vitro si traducono in effetti clinicamente rilevanti. L’effetto terapeutico dipende molto dagli effetti indotti sulla quella miriade di organi e apparati del corpo umano che non sono presenti in una coltura cellulare, primo fra tutti quello immunitario, che deve funzionare correttamente per combattere le infezioni.

Al momento, come sostiene giustamente Anthony Fauci, mancano i risultati di un solido trial clinico. Si stanno però accumulando tante piccole evidenze sperimentali, che ci fanno ben sperare e che motivano un serio studio sulla reale efficacia clinica di questo farmaco. Molti protocolli terapeutici applicati in Cina, nella Corea del Sud, in Italia, in Francia, negli Stati Uniti includono già l’idrossiclorochina (che è meno tossica della clorochina e più efficace in vitro contro i virus SARS-CoV-2), ma questo sulla base di un criterio ex adiuvantibus (Vedi per esempio Ref. 11). Un recente studio francese (Ref. 12) ha analizzato l’efficacia di questa terapia su un campione di pazienti con sintomatologia respiratoria COVID-19, comparando l’efficacia della idrossiclorochina da sola o in combinazione con l’antibiotico azitromicina (un macrolide con una struttura chimica simile all’eritromicina). Il dato è ancora molto preliminare, i numeri sono ancora molto piccoli (36 pazienti), nel lavoro purtroppo non si parla di efficacia clinica, ma comunque è interessante che la combinazione idrossiclorochina-azitromicina elimini la positività al virus molto più rapidamente rispetto all’assenza di qualunque trattamento.

Da quello che abbiamo detto sul meccanismo d’azione, è molto ragionevole pensare che l’idrossiclorochina sia più adatta a prevenire o a limitare l’infezione piuttosto che a curarla, specie quando si abbia a che fare con casi gravi e conclamati. A mio avviso, sarebbe molto importante valutare l’efficacia di questa molecola nella profilassi della malattia con trial clinici ad hoc. Visto che l’utilizzo della idrossiclorochina è molto diffuso in altri contesti, si potrebbe già da subito valutare l’incidenza di questa malattia in questa popolazione di soggetti. Certo, non tutti i soggetti possono assumere questo farmaco per tempi prolungati. Gli effetti collaterali prima citati, in primis le aritmie cardiache legate essenzialmente alla sindrome del QT-lungo, richiedono una valutazione attenta prima del suo utilizzo. In assenza di vaccini e di altre terapie efficaci, rappresenterebbe comunque una misura precauzionale ragionevole per molte persone nel caso i risultati clinici fossero positivi.

Indipendentemente da questi effetti, la clorochina sembra avere anche delle altre proprietà terapeutiche molto interessanti. Presenta un’attività antivirale diretta non ancora ben compresa nel dettaglio, forse legata alla modifica del pH intracellulare o a una interazione con il materiale genetico del virus. Ancora più interessante il suo effetto immunomodulatorio, che porta a ridurre la produzione e/o il rilascio di alcune importanti citochine pro-infiammatorie, tra queste il TNF-alfa e l’interleuchina 6 (Ref 3-4), che mediano le complicanze di molte malattie virali (Ref. 13). I virus della famiglia del COVID-19 inducono importanti lesioni istopatologiche a livello dei polmoni che sono verosimilmente legate a un qualche meccanismo immuno-mediato, verosimilmente associato al rilascio massivo e incontrollato di queste citochine proinfiammatorie, un fenomeno che in gergo viene denominato tempesta citochinica (Ref. 13). Queste reazioni non vengono inibite in modo significativo dalle classiche molecole antinfiammatorie ed ecco perché le clorochina diventerebbe doppiamente interessante. In conclusione, la clorochina sembra vivere una seconda giovinezza, l’importante è che il suo utilizzo venga prima razionalizzato sulla base di una seria e robusta ricerca clinica sull’uomo e da una migliore comprensione della patogenesi dell’insufficienza respiratoria indotta dal COVID-19.

Bibliografia e link

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  2. Shinji Funayama, Geoffrey A. Cordell (2014) Alkaloids: A Treasury of Poisons and Medicines. Academic Press
  3. Schrezenmeier E, Dörner T. Mechanisms of action of hydroxychloroquine and chloroquine: implications for rheumatology. Nat Rev Rheumatol. 2020 Mar;16(3):155-166.
  4. Plantone D, Koudriavtseva T. Current and Future Use of Chloroquine and Hydroxychloroquine in Infectious, Immune, Neoplastic, and Neurological Diseases: A Mini-Review. Clin Drug Investig. 2018 Aug;38(8):653-671.
  5. Malgaroli A, et al. Fura-2 measurement of cytosolic free Ca2+ in monolayers and suspensions of various types of animal cells. J Cell Biol. 1987 Nov;105(5):2145-55.
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  7. Wang M, CaoR, ZhangL, et al. Remdesivir and chloroquine effectively inhibit the recently emerged novel coronavirus (2019-nCoV) in vitro[J]. Cell Res. 2020 Mar;30(3):269-271.
  8. Liu J, Cao R, Xu M, Wang X, Zhang H, Hu H, Li Y, Hu Z, Zhong W, Wang M. Hydroxychloroquine, a less toxic derivative of chloroquine, is effective in inhibiting SARS-CoV-2 infection in vitro. Cell Discov. 2020 Mar 18;6:16.
  9. VincentMJ, BergeronE, BenjannetS, et al. Chloroquine is a potent inhibitor of SARS coronavirus infection and spread[J]. Virology Journal, 2005, 2(1):69.
  10. KonoM, TatsumiK, ImaiAM, et al. Inhibition of human coronavirus 229E infection in human epithelial lung cells (L132) by chloroquine: involvement of p38 MAPK and ERK[J]. Antiviral Res, 2008, 77(2):150-152.
  11. https://www.cdc.gov/coronavirus/2019-ncov/hcp/therapeutic-options.html
  12. Gautret et al. (2020) Hydroxychloroquine and azithromycin as a treatment of COVID‐19: results of an open‐label non‐randomized clinical trial. International Journal of Antimicrobial Agents – In Press 17 March 2020 https://www.mediterranee-infection.com/hydroxychloroquine-and-azithromycin-as-a-treatment of-covid-19/
  13. Mehta P, McAuley DF, Brown M, Sanchez E, Tattersall RS, Manson JJ COVID-19: consider cytokine storm syndromes and immunosuppression. Lancet. 2020 Mar 16. pii: S0140-6736(20)30628-0.